Skip to main content

“I briganti della Carnia”

“I briganti della Carnia” di Francesco Boer. Se la letteratura che preferite è quella edulcorata dei canoni stilistici affettati e a volte melensi, il romanzo “I briganti della Carnia” non fa per voi. La quasi assenza di subordinate rende lo stile di Francesco Boer tremendamente immediato. Ogni pagina delle centotrentadue edite dalla “Whi...
 |  Direttore  |  Cultura

“I briganti della Carnia” di Francesco Boer.


Se la letteratura che preferite è quella edulcorata dei canoni stilistici affettati e a volte melensi, il romanzo “I briganti della Carnia” non fa per voi. La quasi assenza di subordinate rende lo stile di Francesco Boer tremendamente immediato. Ogni pagina delle centotrentadue edite dalla “White Cocal Press” è una fiera di improperi quali intercalare in uso della quotidianità del brigante. La prima persona singolare unita alla brevità del romanzo e alla quasi totale mancanza di inferenze o rimandi filosofici rende il libro di Boer arrivabile per qualsiasi lettore (bimbi esclusi). 

La fabula è un susseguirsi di scorribande che iniziano quando il “bisiaco” entra a far parte di una comunità multietnica di briganti che vive in una grotta non meglio precisata della Carnia. Tuttavia, i precisi riferimenti geografici, dai quali traspare l’autore ne sia fine conoscitore, fanno solo da sfondo ad un caos in medias res; ovvero il libro finisce così come inizia, con un’apparente semplicità per la quale tanto il “bisiaco” ha deciso di divenire un brigante, tanto se ne ritorna a casa fuggendo dalla polizia a fine romanzo. 

Il punto è che il romanzo stesso si fonda sulla contraddizione, sul senso paradossale di coesistenza del binomio civile-incivile. Il primo capitolo è il più lungo, simbolo nascosto del metaforico viaggio dell’educazione infantile e l’ultimo il più corto. Il linguaggio volgare nasconde uno sguardo sul senso della vita stessa, ed è chiaro che il capitolo primo nella sua lunghezza rappresenta il tempo in cui l’educazione, la cultura, il senso di civiltà vengo introiettati ed assorbiti nell’essere umano. Ecco dunque che ciò che sta in mezzo, tanto nei capitoli di Boer, tanto nel loro senso traslato, è un viaggio in cui l’uomo si spoglia della pesantezza della civiltà; è una volgarità etimologicamente che ritorna al popolo, al piacere del cibo e dello stare assieme: sì perché tra una scorribanda e l’altra il buon “bisiaco” non solo conosce nuovi personaggi con i quali compie varie “missioni”, ma anche mangia e beve in quantità spropositate. Che sia questo da vedersi come un inno alla convivialità della gente di montagna è provato dal riferimento testuale: infatti, in due momenti del romanzo i proprietari delle malghe offrono protezione e ristoro ai briganti. Tuttavia Boer non scrive un romanzo quale atto pubblico di amore per la cucina carnica; la convivialità tra il bere, il mangiare e le “gare di botte” è momento di riflessione sui rapporti dell’uomo con la società. 

I rarissimi sprazzi di poesia, nel continuo susseguirsi di improperi, fanno trasparire in relazione anche a quanto rilevato prima sulla lunghezza del testo, il pensiero dell’autore. Ecco dunque che l’inizio in medias res e la fine brusca rappresentano quel senso di ignota “gettatezza” che è la vita, dove la poesia rappresenta lampi di comprensione di un disegno, che se non cercato dello sguardo dell’autocoscienza, non è visibile. I momenti di riflessione del “bisiaco” sono condivisi con il capo dei briganti “Gianni” e con gli altri venuti fin sulle montagne della Carnia per disintossicarsi dalla civiltà. Appare di certo evidente che le figure del Boer non siano bambini o adolescenti, ma uomini e donne adulti, ovvero persone in cui la maturità dello sguardo critico ha evidenziato i limiti della società. L’esser maturo per Boer assume così il significato dell’esser capaci di comprendere anche i paradossi che si creano una volta distaccatisi dalla società: “Ma non siamo anche noi contagiati? Non ci portiamo dentro questo virus, da cui tentiamo di fuggire?”

Alla domanda lasciata in sospeso segue la retata della polizia, dal quale ognuno invece che affrontare gli agenti scappa per non venir preso; così ciclicamente, il “Marino”, brigante assalitore del “bisiaco” nel primo capitolo e maestro dell’iniziazione brigantesca salva il protagonista dall’arrest, chiudendone (forse solo momentaneamente) l’esperienza. La figura del brigante, per l’appunto, non è assimilabile a quella di un delinquente, poiché ogni loro atto (criminale, ma non omicida) rappresenta una presa di posizione nei confronti di un modo di vedere e percepire la montagna. L’individualismo e l’individualità si confondono nei micro nuclei i che si formano per il fine della missione; il sodalizio temporaneo, che richiama anche alla brevità dell’esperienza comunitaria, offre anche uno spunto per tratteggiare sommariamente il dubbio sulle forme verticali e orizzontali del potere in cui si struttura la politica dell’unione brigantesca. 

L’interrogativa retorica è l’amaro disincanto di un personaggio che realizza come l’esperimento di guarigione dei briganti porti con sé innegabilmente l’esperienza di civiltà educativa nel quale il singolo è stato forgiato. Far i conti con la società “giù a basso” e con l’assenza di comodità rappresenta per questa Comune proto-anarchica una meravigliosa e sottintesa malinconia nei quali, come nella nostra vita quotidiana, i balli e le feste leniscono e ubriacano di senso il vuoto incolmabile del come sia giusto vivere.

 

recensione a cura di Andrea Altin

Parole chiave: Trieste